Nel suo intervento al Nuovo di Cuneo il 20 luglio, Giulio Poggiaroni ha affrontato la complessa questione della difesa comune europea, interrogandosi sul significato e sulla necessità del riarmo nel contesto attuale.
L’analisi parte dalle fondamenta dell’Unione europea, nata sull’ideale di una pace duratura, come auspicato da Robert Schuman e ribadito nell’art. 11 della Costituzione italiana, dove il ripudio della guerra si accompagna alla possibilità di limitare la sovranità nazionale in favore di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Durante la Guerra Fredda, la deterrenza militare era l’unico strumento efficace contro l’Unione Sovietica. Con la disgregazione dell’URSS, gli eserciti europei si sono trasformati attraverso una riduzione delle unità aumentandone parallelamente la specializzazione. Tuttavia, come osservato da Poggiaroni, anche eserciti “minori” si sono rivelati capaci di mettere in crisi superpotenze, come nel caso della Libia post-Gheddafi, mostrando i limiti del modello attuale.
La richiesta di un maggiore impegno europeo nella difesa è già emersa sotto l’amministrazione Obama, ma ha subito un’accelerazione con Trump e la sua politica di limitazione dei finanziamenti bellici alla difesa degli alleati. Questo ha imposto agli europei una nuova consapevolezza: il riarmo non implica necessariamente la guerra, ma è condizione indispensabile per creare deterrenza, concetto riassunto efficacemente nella frase latina e ripresa da Poggiaroni: “Se volete la pace, preparatevi alla guerra”.
Oggi l’Europa ha stanziato circa 800 miliardi di euro per il riarmo, ma a livello nazionale, non in un’ottica unitaria.
Poggiaroni ha poi definito cosa volesse dire “esercito europeo”: non una forza unica, bensì eserciti nazionali in collaborazione, come già in parte accade sotto l’organizzazione NATO. Sono però tanti gli ostacoli a questa unione di forze: l’assenza di una filiera industriale coordinata e autonoma, la mancanza di un comando europeo (a oggi esistente solo in ambito NATO), e limiti a livello umano come quelli logistici, linguistici e motivazionali.
Gli unici strumenti che più si avvicinano ad un obiettivo di difesa comune europea sono gli European Battle Groups (che contano circa 1500 unità) e, dal 2022, la European Rapid Deployment Capacity (fino a 5000 unità), ma questi strumenti non sono adatti a un conflitto simmetrico su larga scala e fortemente ancora radicati alle realtà nazionali.
Il piano europeo di riarmo, sostenuto dalla Commissione europea con 150 miliardi raccolti tramite politiche fiscali, mira non tanto alla crescita degli eserciti, quanto al rafforzamento della capacità industriale di produzione militare. Collaborazioni tra aziende italiane (es. Leonardo S.p.A.) e non, come avviene con il piano SAFE “Safety Actions for Europe” mirano in questa direzione: creare un’industria competitiva e strategicamente indipendente dalle altre superpotenze militari.
Gli altri 650 miliardi sono una stima del capitale stanziabile dai governi nazionali, eventualmente accompagnata da un allentamento dei vincoli di bilancio per sostenere questi investimenti.
Al termine dell’intervento, il pubblico ha partecipato attivamente al dibattito, ponendo all’interlocutore domande su tematiche di attualità particolarmente sentite, spesso controverse e divisive, che hanno innescato pareri discordanti. Questo ha dato vita a un confronto stimolante e costruttivo tra relatore e partecipanti, segno di un forte coinvolgimento e di un interesse autentico verso le questioni affrontate.
Poggiaroni conclude con una provocazione: “Perché l’esercito europeo è un mito?”, trovando così risposta nella radicata divisione linguistica, nella mancanza di un’identità militare europea condivisa e nell’assenza di una vera volontà politica, evidenziando come più che un esercito unitario, serve una forte integrazione industriale, con ricadute anche in termini occupazionali e tecnologici.
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22.07.2025 - Europe Direct