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L'emigrazione italiana in Europa

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Il 20 dicembre 1955 il governo italiano e quello tedesco siglano a Roma un patto bilaterale per il reclutamento e il collocamento di manodopera nella Germania Federale.
Il primo contingente di lavoratori italiani, 1.389 persone, arriva in Germania nell’aprile del 1956. A partire dalla prima metà degli anni Sessanta, l’emigrazione italiana in Germania assume dimensioni rilevanti, passando dalle 220.000 unità del 1961 alle 373.00 del 1965, fino ad arrivare alle 450.000 del 1973.  Numeri ragguardevoli, che portano quella italiana ad essere la terza comunità dopo quella turca e quella jugoslava. Un’emigrazione che si trasforma da stagionale e permanente, distribuendo gli italiani soprattutto nel Baden Wurtenmberg, in Renania-Westfalia, in Baviera e nei grandi centri industriali di Stoccarda, Francoforte, Colonia e Wolsburg, sede della Wolkswagen che ha in quello italiano il gruppo di lavoratori più consistente.
La Germania riserva agli emigranti italiani un’accoglienza in chiaroscuro: gastarbeiter, e cioè lavoratore assunto con dei contratti a termine, diventa sinonimo di italiano. Un termine al quale si aggiungono stereotipi e luoghi comuni (ladro, assassino, poco attento alla pulizia, fannullone, promiscuo) che rendono irto di ostacoli il percorso di inserimento e integrazione in Germania, dove attualmente risiedono circa 600.000 nostri connazionali.
Un’altra tappa cruciale nella storia dell’emigrazione italiana in Europa è costituita dalla Svizzera, paese nel quale a partire dalla seconda metà del XIX secolo si verifica una prima ondata migratoria. Nel 1860 risiedono in territorio elvetico circa 10.000 italiani, il cui numero aumenta sensibilmente all’alba del nuovo secolo, passando dalle 117.059 unità del 1900 alle 202.809 del 1910.
Al termine del secondo conflitto mondiale la Svizzera dispone di infrastrutture efficienti e di un apparato produttivo intatto, esercitando una forte capacità attrattiva. I governi dei due paesi siglano un accordo volto a regolare il flusso migratorio di lavoratori italiani sul territorio svizzero, dove arrivano, nel solo 1947, 105.112 persone, provenienti, in gran parte, dal Friuli, dal Veneto e dalla Lombardia. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il 60% degli emigranti italiani proviene dall’Italia del sud. Tra il 1955 e il 1959 la Svizzera, al centro di un rapido processo espansivo, attira sul proprio territorio una consistente quota di manodopera proveniente dall’estero, gran parte della quale costituita da italiani, diventati il 49% dell’intera popolazione straniera del paese. Una presenza che tocca il punto più alto nel 1975, con  573.085 unità.
Lavoratori stagionali in possesso di un permesso di soggiorno valido per nove mesi, gli immigrati italiani vedono mutare le proprie condizioni a partire dalla prima metà degli anni Sessanta, quando il governo svizzero modifica il proprio atteggiamento nei confronti della manodopera straniera, concedendo permessi di soggiorno a lungo termine, facilitando i ricongiungimenti familiari e avviando le prime pratiche di naturalizzazione.
Nel 1974 la Svizzera è attraversata da una crisi economica che provoca una forte disoccupazione interna, portando molti italiani a decidere di fare ritorno in patria. L’emigrazione italiana in Svizzera inizia a riprendere vigore soltanto a partire dal 1979, anno nel quale gli italiani sono 442.715, il 60% dei quali proveniente dalle regioni del sud. Una cifra che diminuisce nel 1985, quando sono censiti 411.913 italiani, diventati 391.649, nel 1990. Nel 2000 gli italiani residenti in Svizzera sono 527.817.
Lungo e complesso si è rivelato il processo di inserimento degli immigrati italiani. Tempi duri e difficili, esemplificati dai cartelli che, affissi davanti ai locali pubblici, impediscono l’ingresso “ai cani e agli italiani”, dalle battaglie xenofobe condotte nei primi anni Settanta da cittadini e partiti politici che individuano negli italiani i principali responsabili dell’uberfremdung, e cioè di una pericolosa contaminazione dei costumi o, ancora, nella pratica, alquanto diffusa, di creare nelle scuole elementari apposite classi speciali all’interno della quali trasferire i bambini stranieri che palesano difficoltà di apprendimento.