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Le migrazioni interne all'Italia

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A partire dalla seconda metà degli Cinquanta del Novecento l’Italia è attraversata da un copioso flusso di migrazione interna. Uomini e donne emigrano per lasciarsi alle spalle fame e miseria, intraprendendo però un cammino più breve: non si va più in America, ma si sale su, al nord.
Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel centro e nel nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale. Un vero e proprio esodo, che conosce una fase di stagnazione verso la metà degli anni Sessanta, per poi riprendere tra il 1968 e il 1970, quando si assiste a una nuova e massiccia ondata di partenze. Genova, Milano e Torino diventano le mete principali di traiettorie migratorie capaci di mutare fisionomia e volto a città che, improvvisamente, vedono arrivare sul proprio territorio centinaia di migliaia di immigrati da ogni regione d’Italia. Luoghi che crescono rapidamente e a ritmi vertiginosi e nei quali si snodano percorsi migratori che assumono connotati regionali e interregionali, e dove i nuovi immigrati arrivati dal sud si sostituiscono a quelli dell’Italia settentrionale, in gran parte veneti, che a partire dagli anni Trenta, rappresentano il principale serbatoio di manodopera per l’intero territorio dell’Italia nord-occidentale.
Torino è la città simbolo dei tratti contraddittori del processo migratorio, dove sogni e fallimenti si intrecciano con emarginazione e integrazione. Un flusso ininterrotto porta ogni giorno sulle banchine della stazione ferroviaria di Porta Nuova un numero sempre più consistente di persone. Uomini e donne partono con il treno sole, un convoglio carico di speranza e desideri, che in ventitre ore attraversa l’Italia. Un viaggio lungo, spesso affrontato sui sedili della terza classe, con lo sguardo che si posa su paesaggi nuovi e sconosciuti mentre nella mente risuonano le parole di una filastrocca:  “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”.
Nelle vicende migratorie italiane, si inseriscono anche gli itinerari di coloro che arrivano in città dalle campagne e dalle montagne: figli che abbandonano le fatiche della terra per inseguire un timido benessere che sostituisce la bicicletta con lo scooter, la vanga e la zappa con la catena di montaggio. Polenta, fame e lavoro sfruttato fanno da sfondo alle storie provenienti dai mille paesi della Valle Padana:  Ferrara, Mantova e Rovigo, emblema di quel Polesine che nel 1951 viene sommerso dalle acque del Po.
La scelta di Torino, Genova e Milano non è lasciata al caso: qui si spera di trovare industrie che assumono, lavoro sicuro e una casa. Un sogno a portata di mano, un modo considerato semplice per sfuggire alle scarse prospettive di vita offerte dalla propria terra di origine.
Ma non sarà sempre così, poiché l’arrivo in una nuova realtà si porta dietro difficoltà di non facile superamento. Problematiche di integrazione, culture e identità regionali differenti, trasformano l’incontro tra settentrionali e meridionali in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi.
Emergono le difficoltà a reperire un lavoro, un’abitazione stabile e decorosa e a tessere rapporti sociali. Per chi arriva dalle regioni del sud, la ricerca di una casa diventa un percorso a ostacoli riassunto dai cartelli affissi ai portoni delle case: non si affitta ai meridionali. Chiamati mau mau, terroni e napuli da gran parte della popolazione locale, gli immigrati del sud sono al centro di dinamiche esclusive che rendono complicato il loro inserimento nelle località di arrivo. Una situazione superata col tempo, attraverso contatti nella sfera pubblica, privata e lavorativa. Uno spazio, quello del lavoro, all’interno del quale si snoda un primo importante processo di conoscenza contribuendo ad un’integrazione oramai completamente avvenuta.