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La tragedia di Marcinelle

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Nel 1950 in Belgio sono attive 154 miniere. Una di queste si trova a Marcinelle, piccolo borgo alla periferia di Charleroi. Qui, ogni giorno, 800 minatori indossano la tuta e scendono a sventrare la terra. Pochi di loro sono belgi, la gran parte  è costituita da immigrati tedeschi, polacchi e  soprattutto italiani. I primi italiani giungono in Belgio nel giugno del 1946 in seguito a un accordo siglato dai due governi: l’Italia si impegna a inviare nelle miniere 2.000 minatori alla settimana, mentre il Belgio spedisce all’Italia quote di minerale a prezzo agevolato: 300-400 chili di carbone al mese per ogni minatore. Il Belgio ha bisogno di braccia per estrarre il carbone, l’Italia ha fame e, per molti, emigrare diventa l’unica soluzione.
Dal Veneto, dall’Abruzzo, dalla Sicilia e dalle zone depresse del sud del paese partono alla volta del Belgio migliaia di uomini, direttamente arruolati dai rappresentanti della Federazione belga degli industriali carboniferi. Dopo accurate visite mediche, sono portati al Centro dell’emigrazione di Milano e da qui, a bordo di lunghi convogli, nel buio dei pozzi dove, senza alcun tipo di preparazione, lavorano avvolti da un calore infernale a ritmi esasperati e con il continuo rischio della vita. Quelli che non resistono vengono rinchiusi nei centri di raccolta, campi creati durante la guerra dai tedeschi per i prigionieri russi, e rispediti in Italia. Chi accetta di lavorare è ospitato in villaggi di baracche in lamiera, senza acqua corrente, dove un sacerdote missionario è spesso l’unico legame con il paese di origine, dal momento che passano mesi, e in certi casi anni, prima che i minatori riescano a farsi raggiungere dalle famiglie.
A Marcinelle i gueules noirs (musi neri)  lavorano a oltre ottocento metri di profondità: scendono all’alba e risalgono la notte, ma l’8 agosto del 1956, 262 di loro non rivedranno più la luce del giorno. Quella mattina a quota 835 metri un vagoncino recide i cavi che portano la corrente, scoppia un incendio e le fiamme divorano ogni metro della galleria. Nessuno dei trecento minatori riesce a risalire, perché le gabbie sono bloccate e l’ascensore di emergenza del pozzo non funziona. Pompieri e autoambulanze accorrono sul luogo dell’incidente. Fin da subito si intuisce la tragicità della situazione. Gli uffici della miniera iniziano a stilare l’elenco delle squadre scese nel pozzo: più della metà dei minatori sono italiani. A organizzare i primi soccorsi c’è Angelo Galvan, capoturno, originario di Roana sull’Altopiano di Asiago. Con l’aiuto di altri minatori riesce a salvare dieci persone. Tra disperazione e speranza le ore trascorrono lente in un clima di mobilitazione generale che coinvolge la Croce Rossa, i pompieri, la protezione civile, le scuole e le chiese trasformate in dormitori, mense e camere ardenti. La notte del 22 agosto, a profondità 1.035 metri si infrange ogni illusione: non c’è più niente da fare. A Marcinelle muoiono 262 persone, 136 delle quali sono italiane. La maggior parte delle vittime proviene da Manoppello, piccolo centro della provincia di Pescara, altri arrivano dal Triveneto, dalla Toscana, dalla Sicilia e dalla Sardegna: non c’è parte d’Italia che non abbia lasciato un suo caduto a Marcinelle, recitano amaramente le pagine dei quotidiani dell’epoca.
Nel 1959 l’inchiesta giudiziaria, porta sul banco degli imputati tecnici e proprietari dell’impresa. Un totale di cinque persone, tutte assolte. Il successivo processo di appello condanna uno solo tra gli imputati a sei mesi di reclusione con la condizionale e al pagamento di un’ammenda di 2.000 fiorini belgi. La società proprietaria dell’impianto è condannata a risarcire, per circa tre milioni di fiorini belgi, soltanto gli eredi di due tra le 262 vittime. La vicenda processuale si conclude nel 1964,  quando le parti in causa trovano un accordo davanti al tribunale di Liegi.