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Il primo dopoguerra e la ricostruzione

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L’Italia esce dal conflitto con un’eredità di fame, macerie e stracci. E’ un paese devastato da vent’anni di feroce dittatura, sezionato in due da una guerra civile sanguinosa e traumatica e fiaccato sul piano internazionale. Speranza, gioia e sollievo che invadono le piazze d’Italia subito dopo la liberazione, lasciano spazio a  scoramento, sconforto ed esasperazione. Gli italiani hanno voglia di lasciarsi alle spalle i ricordi della guerra, ma devono fare i conti con una situazione sociale delicata e precaria. Le bombe alleate hanno ridotto a brandelli città e paesi, lasciando senza casa almeno due milioni di persone, che devono essere assistite così come le migliaia di profughi e reduci di guerra.
Trasporti e servizi pubblici sono paralizzati, i disoccupati sono due milioni e mezzo, l’inflazione dilaga e il sistema produttivo del paese è in ginocchio. Nelle campagne la produzione precipita a livelli bassissimi e gran parte del raccolto finisce sui banchi della borsa nera. Le industrie, permeate da disordine organizzativo e incertezza, sono chiamate a confrontarsi con la mancanza di energia, con la carenza di materie prime e con le mobilitazioni operaie portate avanti dalle forze sindacali, la cui unità inizia a dare concreti segni di cedimento. La frattura diventa insanabile subito dopo il ferimento a Roma, il 14 luglio 1948, di Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano. L’attentato provoca l’immediata reazione dei lavoratori romani, di quelli delle campagne toscane e delle grandi fabbriche del nord, che indicono scioperi e manifestazioni, cui non aderisce l’ala cattolica della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), tesa a considerare il sindacato non come strumento di intervento sulla politica del paese, ma come elemento di contrattazione e tutela degli interessi economici dei lavoratori. Due concezioni diametralmente opposte, che portano a una scissione inevitabile: la corrente cristiana dà vita alla Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL) seguita, poco dopo, dalla nascita dell’Unione italiana del lavoro (UIL) di matrice repubblicana e socialdemocratica.
Il disordine economico e le acute tensioni sociali fanno da sfondo al riavvio di un processo produttivo, capace di  raggiungere livelli di normalità soltanto alla fine degli anni Quaranta, quando, dopo una marcia lenta e faticosa,  gli indici tornano ad assestarsi su livelli vicini a quelli dell’anteguerra.
Lo stesso scenario di precarietà avvolge anche la provincia di Cuneo, che nell’immediato dopoguerra presenta forti segni di squilibrio economico, dovuti a una difficile ripresa industriale e ad una disoccupazione dilagante. Nella sola Cuneo i disoccupati sono 9.589 nel 1946, 10.422 nel 1947 e 12.500 nel 1948. Cifre rilevanti, che contribuiscono ad una rapida ripresa dei flussi migratori verso mete transoceaniche ed europee.
La ripresa tarda ad arrivare nei diversi settori produttivi: dai setifici ai cotonifici, dalle industrie meccaniche a quelle metallurgiche, dall’artigianato all’edilizia. A resistere è il comparto agricolo, principale fonte di guadagno per l’intero territorio della provincia cuneese, dove il reddito prodotto dall’agricoltura tocca il 42,7% di fronte al 17% dell’intero Piemonte, mentre quello industriale supera a malapena il 22%.