Don Milani. La lettera ai giudici
Per il processo dell'autunno 1965, Milani scriverà la famosa Lettera ai giudici, non potendo essere presente al Tribunale di Roma per malattia.
La lettera viene elaborata con un intenso lavoro tra l'inizio di settembre e la metà di ottobre, avvalendosi anche del parere di esperti.
Milani va oltre la difesa degli obiettori; ciò che gli preme è la libertà dell'uomo, del cristiano, la libertà di usare il proprio cervello e la propria coscienza per decidere; l'ubbidienza non può più essere cieca; un ordine non può mai essere assoluto e insindacabile.
Dunque l'obbedienza va calata nella concretezza della situazione storica. Il rapporto con le leggi non può essere quello di una obbedienza statica e alla lettera: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dire che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Viene quindi affermato il primato della coscienza, che implica la capacità di pagare di persona. “E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona una o.d.c., cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”.
Don Milani con i ragazzi ha riletto gli ultimi cento anni di storia italiana “in cerca d’una guerra giusta. Di una guerra che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione”. L’articolo 11 usa un’espressione forte a proposito della guerra: l’Italia ripudia. È proprio a partire dal giudizio che si dà sulle guerre passate che si deve decidere se obbedire o no a quelle future.
Analizzando la storia si scopre che le guerre sono state fatte a vantaggio della classe dominante, a volte inutilmente, in quanto si sarebbe potuto ottenere attraverso la diplomazia quello che s'è voluto avere con le armi. In certi casi si è usata la guerra per ampliare i confini territoriali, in altri per far grande l'Impero con le conquiste coloniali e così si è continuato a uccidere innocenti.
L'esercito italiano e i suoi soldati hanno prodotto e subìto molte vittime non per difendere la patria ma per gli interessi di gruppi economici. Per Milani, gli eserciti non fanno gli interessi dei poveri, ma delle classi dominanti e non rappresentano quasi mai la Patria “nelle sue totalità ed eguaglianze”, né la difendono. Quando c'era da difenderla, ad esempio nel 1922, non lo fecero.
La guerra giusta non esiste più, né per la Chiesa né per la Costituzione. Milani conclude il ragionamento dicendo: “Se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura”. È un invito chiaro rivolto ai giovani perché sappiano disobbedire a ordini che mettono in questione il destino dell'umanità e la sorte degli inermi e degli innocenti.
Ridiventa centrale allora il ruolo della scuola nell'educare la coscienza, nell'abituare a discernere per evitare la deresponsabilizzazione. Occorre “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”.
Il processo
Il 14 dicembre si svolge la prima seduta del processo. L'avvocato Gatti chiede che sia allegata la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, insieme ai disegni di legge sull'o.d.c..
Il 15 febbraio 1966 don Milani viene assolto dal tribunale di Roma perché “il fatto non costituisce reato”.
Il 15 dicembre 1966 si apre il processo d'Appello.
Il 5 ottobre 1967 la Corte d'Appello di Roma condanna Pavolini per apologia di reato e per don Milani dichiara il non luogo a procedere per la morte del reo.
Il 15 gennaio 1969 la Corte di Cassazione concede l'amnistia a Luca Pavolini.