Menu di scelta rapida

Resistenza civile delle donne

Link alla versione stampabile della pagina corrente

Tra i casi di resistenza civile al nazifascismo, fondamentale appare l'azione di assistenza, travestimento, salvataggio dei soldati sbandati dopo l'8 settembre ‘43, operata in modo imponente soprattutto dalle donne.
Dopo che fu reso noto l'armistizio con gli Alleati, mentre i quattro quinti del territorio nazionale erano occupati dai tedeschi, decine di migliaia di giovani, rimasti senza alcuna direttiva da parte degli alti comandi militari, rischiavano la cattura da parte degli ex alleati tedeschi e l'internamento in Germania. Il “maternage” di massa appare come una fondamentale azione di resistenza civile, perché sottrae agli occupanti tedeschi un grande numero di giovani (italiani sbandati ed ex prigionieri alleati) che anziché essere incarcerati e spediti nei campi di lavoro, in parte andranno a costituire le stesse formazioni partigiane. Tutto ciò avviene nonostante il rischio della pena di morte prevista per chi avesse prestato aiuto, nascosto o contribuito a fare fuggire un prigioniero alleato.
Azioni altrettanto rischiose furono quelle di dare rifugio agli ebrei perseguitati, sostenere la lotta partigiana, fare propaganda, diffondere la stampa clandestina, soccorrere i feriti e dare sostegno alle famiglie dei militanti.
Un altro aspetto importante della resistenza civile è quello di essere un tipo di lotta che spesso anziché incrementare la violenza riesce a contenerla, come nel caso della donna che, avendo dato sepoltura al soldato tedesco ucciso, riesce a evitare la rappresaglia .
In primo piano nella resistenza civile ci sono azioni attuate con astuzia, coraggio morale, capacità di manipolare le situazioni in modo vantaggioso, prontezza di riflessi e soprattutto con comportamenti alla portata di tutti. Se la lotta armata può suscitare riserve di diverso tipo (fede religiosa, convinzione politico-ideologica, difficoltà di stato e di età), la resistenza civile è praticabile da tutti e toglie ogni alibi alla responsabilità dell'azione di ciascuno, di fronte a un sistema ingiusto.
Qualche volta le partigiane esprimono chiaramente anche il rifiuto della guerra e dell'uso delle armi, come in questa testimonianza di Tersilla Fenoglio Oppedisano:
“La resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati, cioè gente che va nei boschi perché non la piglino ‘e se venite a pigliarmi afferro un mitra e vi sparo!’ Imboscati proprio in questo senso. È il primo momento nella storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della guerra. In questo senso è importantissima la resistenza. Io non so se sia opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per demistificare la figura dell'eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo, il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po' isolata a dire queste cose perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono e si fa soltanto l'elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma e combatte, mentre quando si va a vedere sotto sotto, appare quell'aspetto del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo”.
Tersilla, qui, usa i termini “imboscati” e “disertori” in senso positivo, il che non è affatto scontato. Chi poteva dire questo se non una donna? La chiarezza con cui denuncia il rischio del nazionalismo, in una guerra che pure era stata anche di liberazione nazionale e il rischio del militarismo, poiché la guerra fu durissima e combattuta, rivela una lucidità e una lungimiranza notevoli.
Anche nei Lager si può parlare di resistenza civile "quando ci si sforza di agire, di far fronte alla situazione estrema, di manipolare le norme, di ritagliarsi, pur nel precipizio di un mondo capovolto, spiragli per fare e pensare”.
Sul finire della guerra, quando l'Italia è divisa in due dalla linea Gotica che separa il Nord ancora sotto occupazione tedesca e il Centro-Sud liberati, il secondo governo Bonomi emana i bandi di leva per un contingente da affiancare alle truppe alleate. Di fronte alla renitenza diffusa si passa ai rastrellamenti, provocando scontri con arresti, morti e feriti.
Sulla Resistenza civile conosciamo storie splendide, che escono dall'anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non più giovane donna torinese di classe operaia, che non esita a accogliere e rivestire in borghese i primi militari che bussano alla sua porta, dopo l’8 settembre 1943, ma che subito si rende conto del carattere di massa dell'emergenza. Fa allora incetta di indumenti borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carità, e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta dove sull'onda del passaparola gli sbandati si presentano sempre più numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preoccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento. Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita. È una gigantesca operazione di salvataggio, forse la più grande della nostra storia, che viene condotta in assenza di direttive politiche e in gran parte da donne cosiddette comuni; un fenomeno che non si ripeterà più con queste caratteristiche e dimensioni.