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Il fascismo al confine orientale d’Italia: i campi del duce

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Il 3 novembre 1918, l’Italia firma a Villa Giusti il Trattato di pace con l’Austria e il giorno successivo le truppe italiane entrano in Istria. Nel 1920 l’Italia e la Jugoslavia siglano il Trattato di Rapallo, che disegna un nuovo scenario sul confine orientale: l’Istria e Zara sono annesse al Regno d’Italia. Fiume è invece dichiarata città – libera fino al 1924, quando il Trattato italo-jugoslavo di Roma ne decreta il definitivo passaggio all’Italia. Il vecchio Litorale Austriaco diventa così parte integrante del Regno d’Italia che con l’intento di dare visibilità alla componente italiana, evidenziandone le ascendenze romane e venete, ne muta la denominazione in Venezia Giulia. La nuova sistemazione del confine orientale comporta l’incorporazione nel Regno d’Italia di circa 400.000 sloveni e di più di 100.000 croati, portando alla convivenza, in un unico blocco, di due mondi radicalmente diversi.
L’avvento del fascismo modifica il quadro delle prospettive. Un fascismo di confine, che mette in atto nella Venezia Giulia una capillare politica di italianizzazione mirante a realizzare una distruzione pressoché totale dell’identità della popolazione slovena e croata, avvalendosi di metodi intimidatori e violenti e dell’utilizzo di leggi. La riforma Gentile del 1923 sancisce l’introduzione obbligatoria della lingua italiana e la cessazione dell’insegnamento di quella slovena e croata mentre, nello stesso anno, le leggi toponomastiche italianizzano i nominativi alle località e alla toponomastica stradale. Nel 1925 le lingue slovena e croata, sono escluse dai tribunali, dagli uffici amministrativi, dagli esercizi commerciali, dai luoghi pubblici e persino dai cimiteri, dove viene imposta l’abolizione delle scritte slave sulle lapidi e sulle corone mortuarie. Nel 1927,  facendo leva sulla restituzione dell’antica forma latina, una normativa prevede l’italianizzazione d’ufficio di tutti i cognomi e lo scioglimento delle associazioni culturali slovene e croate. Tra il 1928 e il 1929 il regime sferra il suo attacco al clero, abolendo lo sloveno e il croato dalle prediche domenicali e dal catechismo.
Il 6 aprile 1941 la Germania nazista dichiara guerra alla Jugoslavia. Al suo fianco si schiera l’Italia mussoliniana. Il 17 aprile l’esercito jugoslavo capitola. Il Montenegro diventa protettorato italiano, parte del Kosovo e della Macedonia sono annesse all’Albania (occupata nell’aprile del 1939) e nascono le nuove province di Cattaro, Spalato e Lubiana. A governare quest’ultima è chiamato Emilio Grazioli, che agisce in stretta collaborazione con il generale Mario Roatta, massima autorità militare. Un’occupazione durata ventinove mesi, nel corso della quale l’esercito italiano si rende responsabile di rastrellamenti e violenze di massa che colpiscono la popolazione civile. Pratiche alle quali si aggiungono anche deportazioni e internamenti di massa nei lager dell’Italia fascista: circa duecento strutture distribuite tra il territorio italiano e quello jugoslavo occupato, all’interno delle quali la mortalità per fame e per stenti supera percentualmente quella dei lager nazisti di non sterminio. Gestiti dal Regio esercito, i complessi sorgono all’interno di caserme e vecchi edifici già destinati ad uso carcerario. In altri casi essi sono costituiti da enormi tendopoli recintate di filo spinato. È il caso di Arbe, in Dalmazia, dove sorge il principale campo di internamento dell’Italia fascista destinato ad accogliere fino a 15.000 jugoslavi, fatti morire di freddo, malattie e fame, seguendo i dettami del generale Gastone Gambara, comandante dell’XI Corpo d’armata di stanza nei Balcani, secondo il quale un campo di concentramento non è campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo. Si può dunque parlare di un vero e proprio universo concentrazionario, che ha in Arbe il proprio fulcro e che si dirama fino al territorio italiano, dove sorgono altre strutture per internati jugoslavi in Italia: Cairo Montenotte (Savona) in Liguria, Renicci (Arezzo) in Toscana, Monigo di Treviso (Treviso) e Chiesa Nuova (Padova)  in Veneto, Visco e Gonars (Udine) in Friuli, quest’ultimo definito come il più grande campo di concentramento per internati civili operante nella penisola durante la Seconda guerra mondiale.