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Le fabbriche contro il fascismo

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Nella primavera del 1943, un chilo di pane costa 2 lire e 90 centesimi, la pasta 4 lire, il vino da tavola 6,30 lire, mentre a Fossano per un chilo di carne si può arrivare a spendere anche fino a 20 lire. La popolazione, che raggiunge a stento le 950 calorie giornaliere, si rivolge alla borsa nera, dove un chilo di pane arriva a costare fino a 50 lire, mentre alla Cinzano un operaio guadagna 3,50 lire all’ora, alla SNOS 2,90 e alla Burgo 2,88. Carte annonarie e razionamento non risolvono una quotidianità fatta di code davanti ai negozi, diete monotone e mancanza di generi alimentari. La fame diventa inseparabile compagna di vita per molte famiglie, e procurarsi da mangiare è per migliaia di lavoratori l’occupazione principale. Una quotidiana lotta per la sopravvivenza, che ha negli stabilimenti industriali uno dei suoi cuori pulsanti. La fabbrica, luogo destinato alla produzione, diventa punto di riferimento per la popolazione: sono gli spacci aziendali che procurano agli operai e ai loro familiari i generi di prima necessità, dal carbone per scaldarsi alle camere d’aria per le biciclette, dai vestiti al cibo da mettere sotto i denti.
Ma la fabbrica assume anche un altro ruolo, quello di centro di attività politica e di opposizione al regime: gli operai riguadagnano la libertà d’azione di fronte all’oppressiva dittatura fascista, diventando punti di riferimento e interlocutori privilegiati per le forze politiche di opposizione al regime. Fabbriche che danno il via a proteste e scioperi coinvolgenti migliaia di operai scesi in piazza, evento unico in Europa, in una situazione di guerra. Un vento che inizia a soffiare il 5 marzo 1943 a Torino, innescando una lunga serie di agitazioni che durano fino alla metà del mese diffondendosi prima in città, poi in tutto il Piemonte e, da qui, nelle principali fabbriche lombarde, liguri, venete ed emiliane, provocando l’intera paralisi di tutta l’industria del nord. Le giornate del marzo 1943 rappresentano uno spartiacque sul piano politico: dietro alle rivendicazioni dettate dal malcontento economico, si cela una chiara prospettiva politica e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo che, costretto a rispondere positivamente alle richieste degli operai, appare ridimensionato da una classe operaia capace di riacquistare pienamente la propria combattività.
Gli echi del marzo 1943 raggiungono anche la provincia di Cuneo, che ha nello stabilimento della SNOS il polo più rappresentativo della protesta. Qui la mattina del 15 marzo 1.200 dei 1.800 dipendenti dell’azienda minacciano di interrompere il lavoro per l’intera giornata. Sul posto si recano il segretario dei sindacati fascisti, quello del fascio locale e il federale Serafino Glarey, il cui intervento ha parziale successo riportando al lavoro la gran parte degli scioperanti. Continuano la protesta 224 operai dei reparti falegnameria, aviazione e montaggio, molti dei quali sono identificati e arrestati nel pomeriggio del 15 marzo. Alcuni sono condannati e detenuti per oltre due mesi nelle carceri di Cuneo, altri, cui nel frattempo è stato ritirato l’esonero, sono mandati a combattere al fronte.
Un anno dopo, nel marzo 1944, l’intero movimento operaio del nord Italia è chiamato a dare nuovamente prova della propria forza. Il 1° di marzo un Comitato segreto di agitazione per Liguria, Piemonte, Lombardia, lancia la parola d’ordine dello sciopero generale mosso da tre direttrici di marcia: rivendicazioni di tipo economico sindacali, scontro politico frontale con l’occupante tedesco e prova per quello che sarà, qualche mese più tardi, lo sciopero generale insurrezionale. Alle 10,00 del 2 marzo Milano, Torino e altre città dell’Italia del nord, si fermano: nel solo capoluogo piemontese incrociano le braccia almeno 70.000 operai appoggiati dai commercianti che chiudono i negozi in segno di solidarietà. La scia delle proteste tocca anche il territorio cuneese, che vede oltre 3.000 lavoratori partecipare alle agitazioni nelle quali sono attivamente coinvolte le formazioni partigiane. Le prime importanti astensioni, di circa 500 lavoratori, si registrano in Valle Tanaro, in seguito nel saluzzese e nella Val Varaita, dove il 4 marzo scioperano circa 450 operai del cotonificio Wild di Piasco. L’8 marzo è la volta delle Cartiere Burgo di Verzuolo: si astengono dal lavoro 1.038 operai continuando lo sciopero il giorno successivo. Le ultime agitazioni si svolgono a ridosso del 25 aprile 1945, accompagnando la liberazione delle varie città. Nel cuneese si distinguono ancora una volta gli operai della Burgo che interrompono il lavoro due volte, il 9 marzo e il 19 aprile 1945.