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Movimento operaio. Biennio Rosso

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Tra il 1919 e il 1920 l’Italia è attraversata da un’ondata di fermento sociale che, iniziata con le agitazioni contadine e popolari della primavera 1919, raggiunge il punto più alto con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920: diciotto mesi, comunemente denominati biennio rosso.
Delusi dalla mancata distribuzione delle terre e dall’assenza di miglioramenti in materia di equità sociale, i contadini  si rendono protagonisti di agitazioni che, partite dal Lazio e dalla Sicilia, si diffondono in Val Padana, Lombardia ed in altre regioni italiane, sfociando nell’occupazione dei terreni incolti e coinvolgendo circa 500.000 lavoratori. Inizialmente disorientato, lo Stato si muove in una duplice direzione, alternando le concessioni con una dura repressione, che con l’istituzione della Guardia Regia e l’applicazione di misure di contenimento a mano armata, tocca il punto più drammatico.
Nel 1920, il fronte di lotta si sposta sul terreno operaio: scioperi e manifestazioni si susseguono nei principali centri dell’Italia del nord tramutandosi in occupazione degli stabilimenti. Tra gennaio e giugno 1920 sono occupate le Officine Ansaldo di Viareggio, i cotonifici Mazzonis a Pont Canavese e Torre Pellice, lo stabilimento Spadaccini a Sesto San Giovanni e quello dell’Ilva di Piombino. “Fare come in Russia” è lo slogan che irrompe nel cuore della classe operaia guidandola nei moti di agosto e settembre che raggiungono estensioni e dimensioni maggiori culminando nell’occupazione dei principali centri industriali del nord. A far scoccare la scintilla è la serrata della Romeo di Milano la cui occupazione, nel mese di settembre, è il preambolo di quanto avviene successivamente nei principali centri siderurgici della penisola, dove circa mezzo milione di lavoratori occupa seicento stabilimenti dislocati in tutta Italia. La mancata interruzione della produzione, la vigilanza sull’ordine interno mediante la creazione delle guardie rosse, un apposito corpo destinato a difendere la fabbrica dagli attacchi esterni, trasforma l’opificio in un luogo di sperimentazione autogestionaria messa in atto dalla stessa classe operaia.
Giovanni Giolitti decide di adottare una strategia attendista: rifiuta lo sgombero violento delle officine e promuove, attraverso una collaborazione con l’ala più moderata della Confederazione Generale del Lavoro e del Partito Socialista, una politica di mediazione tra industriali e sindacati che porta all’accoglimento delle richieste operaie, allo spegnimento delle agitazioni e al progressivo abbandono degli stabilimenti occupati.
Un passaggio che non è sufficiente a debellare il clima di grande paura che si è impadronito dei gruppi di grande capitale e della piccola e media borghesia che, spinta dal timore di una possibile rivoluzione, individua nel fascismo mussoliniano l’ultimo baluardo contro il pericolo rosso, favorendo in tal modo in maniera decisiva la sua rapida ascesa.
Nel cuneese, dove gli operai danno luogo a scioperi e agitazioni, l’unico stabilimento a essere occupato dalle maestranze è quello delle Officine Savigliano. Il 31 agosto 1920, dopo aver issato sulla ciminiera della fabbrica una bandiera rossa e affidato il servizio d’ordine a un gruppo di giovani guardie rosse, gli occupanti organizzano la produzione, che in soli due giorni porta alla fusione di 100 quintali di ghisa, una quantità superiore a quella prodotta sotto la direzione padronale. Davanti ai cancelli della fabbrica, presidiata da carabinieri e polizia, le famiglie portano agli occupanti viveri, rifornimenti e generi di prima necessità. Con il trascorrere delle ore aumentano le difficoltà, dovute soprattutto alla mancanza di fondi per affrontare le spese quotidiane e all’isolamento in cui si trovano gli operai. Il 1 ottobre 1920, Governo e forze sindacali raggiungono a Torino un accordo che concede miglioramenti economici agli operai e sancisce la fine dell’occupazione dello stabilimento.