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La grande guerra:trincea, insubordinazione, autolesionismo

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Furono 5 milioni e 200.000 i richiamati alle armi, più di 600.000 i morti, oltre un milione e mezzo i feriti, tra questi 500.000 rimasero mutilati o invalidi permanenti.
La grande guerra fu la più terribile di tutte per le condizioni di estrema difficoltà in cui si trovarono a combattere i soldati sui vari fronti da entrambe le parti.
La guerra in poco tempo si trasformò in guerra di posizione, la trincea fu la vera protagonista del conflitto; vi si svolgeva una vita monotona, nel fango, con pidocchi, topi, cibo scarso e poche speranze di ritornare a casa vivi, vita interrotta solo da grandi e sanguinose offensive, prive di risultati decisivi. L'artiglieria sparava sulle trincee nemiche per preparare l'assalto e quando taceva i fanti si alzavano e cercavano di superare gli sbarramenti di filo spinato disposti a protezione delle trincee nemiche, le quali si trovavano a poche centinaia di metri; a volte si attuava un piccolo avanzamento a prezzo di ingenti perdite umane. Tutto questo provocava, soprattutto nei soldati semplici, uno stato d’animo rassegnato e apatico che a volte sfociava in forme di insubordinazione, tanto che per "convincere" i soldati, ridotti a vera e propria "carne da cannone", all’assalto fu necessario istituire una rigida disciplina, fatta di processi sommari e di esecuzioni sul campo.
Si diffusero tuttavia, nonostante la minaccia del plotone di esecuzione, la diserzione e addirittura l’autolesionismo, consistente nell’infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per poter essere dispensati dal servizio al fronte. In altre occasioni ci furono ribellioni collettive, scioperi e ammutinamenti, un po’ dappertutto.
Giorgio Rochat, storico della prima guerra mondiale, parla di “oltre 400.000 processi intentati dalle autorità militari in quattro anni di guerra, centinaia e forse migliaia di esecuzioni sommarie e di decimazioni, una forsennata propaganda di odio e lo sviluppo di un rapporto repressivo, imponente ed efficiente”.
Numerosi i fucilati sul campo per il semplice ordine di un superiore, e gli uccisi in battaglia al minimo accenno di fuga. Questo tipo di esecuzioni è meno quantificabile, ma certo fu frequente, come pure le fucilazioni eseguite per “dare l’esempio”.
La responsabilità della disfatta di Caporetto fatta ricadere sui soldati.
Come spiegare agli italiani la disfatta senza mettere alla berlina il "generalissimo" Cadorna che avrebbe dovuto fare dei nemici un sol boccone? La colpa fu attribuita ai soldati che avrebbero compiuto uno sciopero al fronte, facilitando la vittoria nemica. Con questo alibi si scatenò nei confronti dei quasi trecentomila soldati italiani fatti prigionieri un’infame campagna di accuse costruite a tavolino.
Qualche mese dopo i comandi militari assunsero contro questi innocenti ritenuti responsabili della disfatta un’iniziativa disumana, contraria a tutte le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri: il blocco totale dei pacchi viveri inviati dalle famiglie. Nessuno di coloro che, secondo i vertici militari, aveva concorso al crollo difensivo doveva essere ricordato o nutrito.
I prigionieri, internati nei campi di concentramento furono abbandonati a se stessi, non avevano nulla di cui nutrirsi e vivevano in condizioni igieniche a dir poco pessime. Lo testimonia questa lettera: "Vi scrivo questa mia lettera per ripetervi che la vita che si fa da prigioniero ora, e che ci danno da mangiare, e quanti ne muoiono al giorno per fame, ne muoiono 40-50 al giorno, che ci danno da mangiare ogni mattina tre righe con vermi e brodi di farina amara (...) si dorme come belve con un po' di coperte".